Basta dare uno sguardo ai ringraziamenti contenuti nel booklet, omaggianti giganti antichi e moderni del doom e della psichedelia, per avere un'idea di ci? che propone Alexander Scardavian. Fratello minore di Gilas, cantante dei Death SS in parte di "Story of 1977/1984" e dei Paul Chain Violet Theatre, cita fra i credits gente come Black Sabbath, St. Vitus, Trouble, Blue Cheer, Pink Floyd, oltre che naturalmente Paul Chain, con la musica del quale ? cresciuto. Li adora e si sente.
"Strange Here?" ?, infatti, un compendio del Doom pi? sulfureo e, nella migliore tradizione, lentissimo ed angosciante, in un tempo nel quale i discepoli sabbathiani sono per la maggior parte impegnati ad alimentare la deriva Stoner. Strutture semplicissime: pochi riff ripetuti ossessivamente, batteria scheletrica, parti soliste dilatate e caratterizzate dall'utilizzo per nulla parsimonioso del wah-wah, parti vocali grevi ed allucinate e una registrazione analogica (su otto piste) che dona al lavoro un'aura retr? dal fascino indubbio. "Evil on their Ways", "Feel" e "Forever Sun" (il cui riff principale cita neppure tanto velatamente quello di "Black Sabbath") sono pezzi di una pesantezza insostenibile, asfittici e senza speranza di luce, con voi chiusi in un armadio al buio che venite scaraventati nell'abisso (avete presente il video di "Close to me" dei Cure?); "So Long", un episodio dal sapore decisamente settantiano e scritto da Alexander in collaborazione con il suo nume tutelare Paul Chain, si fa notare in forza di un lungo e convincente excursus solistico. Mi hanno lasciato perplesso "Today, my time to die" e "Save your God", le due tracce maggiormente debitrici della scuola psichedelica (Syd Barret meets Jerry Garcia), la prima in particolare confusa e poco strutturata. Forse non far? gridare al miracolo nessuno, sicuramente non apporta nessuna sostanziale novit? al panorama musicale odierno, ma credo si debba avere un occhio di riguardo per questo lavoro: sincero, sentito e schietto come pochi. Che, se proprio dovessi descrivere con tre parole, non ci sarebbe Valeria Rossi che tenga, la direi con Peter Steele: Slow, Deep and Hard.